Fu il secondo trattore costruito da Om, ma ebbe la sventura di nascere in un momento storico, all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, che non premiava certo le iniziative industriali tese a produzioni non belliche
Allora non c’erano gli odierni sondaggi d’opinione, ma un po’ di acume certi industriali avrebbero comunque dovuto averlo. Offrire agli agricoltori un nuovo trattore nel momento in cui stava per scoppiare la Seconda Guerra Mondiale, non ci voleva molto per capire che non sarebbe stata una scelta indovinata. I dirigenti di Om invece non ci pensarono e fecero tale infelice scelta ingannati anche dalla repentina conquista tedesca della Cecoslovacchia, dall’invasione dell’Albania e della Polonia. Credettero in defi nitiva alla “Guerra Lampo” quando era già in atto il conflitto più lungo e distruttivo della Storia e ciò in quanto volevano sostituire un decrepito testacalda con il già pronto modello “2 Tm” a petrolio. Il “2 Tm” era un bellissimo trattore, copia “molto simile” al Case Ih modello “L”, commercializzato negli Stati Uniti a partire dal 1929. Molto simile, ma con qualche differenza. A cominciare dal motore più piccolo di 167 centimetri cubi, dalle ruote in ferro più grandi, dalla maggiore capacità del serbatoio, dal peso e infine dal frontale non previsto nell’originale. Standard invece la struttura del carro, di tipo portante e costituito da tre sole parti: il supporto dell’assale anteriore, il basamento del motore e la scatola del blocco frizione cambio differenziale. Il motore era a quattro cilindri in linea verticali con camicie umide amovibili, aveva le valvole in testa comandate da aste e bilancieri e la cilindrata era di sei mila 440 centimetri cubi, ottenuta con un alesaggio di 115 millimetri e una corsa di 155. A mille e 100 giri rendeva 40 cavalli in potenza continua e 48 in potenza massima, prestazioni realizzate anche grazie alla presenza di un condotto di aspirazione incorporato nel collettore di scarico per favorire il riscaldamento della miscela fin dai primi giri del motore. La lubrificazione, forzata su tutti gli organi principali, era ottenuta mediante una pompa a ingranaggi comandata dall’albero di distribuzione sistemata nella coppa, da 12 litri di capacità, e collocata in modo da assicurare una regolare distribuzione dell’olio con qualunque inclinazione del veicolo. Il regolatore, per limitare il regime massimo e mantenere costante la velocità di funzionamento desiderata, era azionato dallo stesso albero del magnete ed era contenuto nel coperchio degli ingranaggi della distribuzione. Il raffreddamento era a liquido per una capacità totale di 45 litri, e lavorava grazie a una pompa centrifuga asservita da un ventilatore a sei pale e da un radiatore frontale a blocco unico, a tubetti con tendina regolabile a mano. L’avviamento a benzina era alimentato da un serbatoio di 15 litri, mentre per il funzionamento a petrolio era previsto un serbatoio di 115 litri. La frizione monodisco a secco era comandata tramite una leva a mano, così come il freno sulla puleggia motrice, scelta che dava comunque spazio a un secondo freno a pedale agiva sulla trasmissione. Quest’ultima era basata su un cambio trasversale nel senso che, all’uscita della frizione, un ingranaggio tronco-conico comandava gli ingranaggi a denti diritti come nei testacalda tradizionali. Ciò consentiva di fresare gli alberi di supporto attraverso il carro con molta precisione rendendo il complesso praticamente indistruttibile. La riduzione finale, differenziale e semiassi portanti, era invece a catena in carter chiuso in bagno d’olio, a garanzia di una certa elasticità. Le marce erano tre più retro, per velocità che potevano andare da tre sino a sette chilometri l’ora e il cliente poteva scegliere tra tre rapporti: normale (22/32), lento (20/34) o lentissimo (18/36). Le ruote in ferro con mozzo incorporato e raggi piatti imbullonati del tipo “carpenteria”, avevano un diametro di 820 millimetri sull’anteriore con fascia da 150 e di mille e 280 millimetri con fascia da 280 posteriormente. Le anteriori erano fornite di armilla, mentre le posteriori erano munite di spuntoni angolari di acciaio forgiato. Lo sterzo, a vite senza fine, realizzava un raggio di volta di quattro metri e mezzo e il relativo volante era inserito in un posto guida chiuso dai parafanghi e dalla pedana che realizzavano una completa protezione dell’operatore. Il cofano chiudeva poi da entrambi i lati il motore la cui mascherina posta a protezione del radiatore era identica alla calandra degli autocarri Om. La presa di forza a puleggia era collocata nel lato destro del veicolo e al centro del ponte posteriore era prevista, a richiesta, una presa di forza ad albero scanalato. Sempre a richiesta e con supplemento di prezzo, l’impianto elettrico con fari anteriori e fanalino posteriore alimentati da una dinamo azionata dalla medesima cinghia che comandava la pompa dell’acqua e il ventilatore. Le dimensioni erano di tutto rispetto. Quasi tre metri e mezzo la lunghezza, poco più di un metro e mezzo l’altezza, un metro e 72 centimetri la larghezza per un passo di due metri e un peso di due mila 600 chili. Quest’ultimo parametro sul mercato italiano permetteva al “2 Tm” di stare una spanna sopra i concorrenti a petrolio o a testacalda in termini di rapporto peso/potenza.
L’Om va nei campi
Verso la metà degli Anni Venti dello scorso secolo, Om era la più grande fabbrica di Milano. Costruiva locomotive a vapore e locomotori elettrici, carrozze e vagoni ferroviari, motori e trattori agricoli, automobili e autocarri. La casa milanese venne coinvolta nel settore agricolo dalla Mais, Macchine Agricole Industriali Suzzaresi, azienda costituita nel 1919 da quattro operai che si erano trovati senza lavoro dopo la chiusura della ditta Casali, sempre di Suzzara. I quattro cominciarono a proporsi come riparatori di locomobili e come costruttori di macchine sgranatrici, sfogliatrici e trebbiatrici. Nel 1921, le richieste delle macchine aumentarono al punto da costringere i fondatori a cercare locali più capienti e a decidere l’ingresso di nuovi soci portatori di capitali. La Mais si rivolse così a Om per disporre di un motore adatto all’accoppiata trebbia-pressa e la Casa milanese rispose con locomobili a vapore e motori testacalda. Nel 1927, la Mais raggiunse il massimo del suo sviluppo: 634 macchine tra le quali 370 trebbie, 30 sgranatrici, 60 presse. Poi giunse la crisi mondiale del ’29 e, in seguito a vari aumenti di capitale, Om si trovò nel 1931 proprietaria di circa il 70 per cento della Mais. Questa fu messa in liquidazione e riprese la produzione alcuni anni dopo col marchio Om e la dicitura ”Brevetti Mais Suzzara”. La cosa andò avanti sino al 1945 quando vennero costruite, col solo marchio Om, trebbie e presse di nuovo tipo, mezzi la cui produzione si protrarrà sino a metà degli Anni Cinquanta. Il primo trattore proposto dalla Casa fu un testacalda datato 1929 cui seguì il “2 Tm” di cui si parla in queste pagine. Venne poi il “35/40” del 1952 seguito da una serie di macchine tutte motorizzate diesel che arrivarono fi no al 1973, anno in cui il marchio scomparve per lasciare spazio alla sola sigla Fiat.
Bello e forte, ma non ebbe successo
Nonostante le ottime qualità meccaniche, il trattore non ebbe quel successo che avrebbe meritato. D’accordo che ci fu di mezzo una guerra, ma un migliaio di esemplari venduti in 14 anni sono veramente troppo pochi per un complesso delle dimensioni di Om. Certamente a questi bisogna aggiungerne forse un centinaio di altri acquistate dai militari, macchine che c’è chi giura di aver visto in Russia al seguito dei nostri soldati, ma anche in questo caso la produzione è comunque bassa al punto che c’erano talmente pochi trattori in circolazione che per anni il modello è stato ignorato anche dai collezionisti più attenti e preparati. Anche l’attuale collezionismo di massa li ignora completamente, teso com’è nella ricerca quasi spasmodica di un testacalda. Non importa quale. Ciò non toglie che oggi il “2 Tm” sia raro e goda di quotazioni interessanti che oscillano dai 20 ai 30 mila euro a secondo dello stato in cui si trova. Da segnalare che nel 1951 venne presentata
una versione con pneumatici denominata “Pg 48” che non raggiunse le 30 unità immatricolate sul mercato.
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